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Di corpi e di spiriti

Aggiornamento: 27 lug 2020

Una delle eredità più insospettabili e scomode che ci ha consegnato la modernizzazione è la riscoperta del peggior cameratismo. Quello spirito di corpo, di stampo militare, che non conserva la minima traccia di solidarietà o cooperazione e che puzza invece tantissimo di paura e ideologia.


Il capolavoro di questa riorganizzazione, attuata con un autoritarismo settario senza precedenti, è stato quello di riuscire ad assolvere i mandanti, riversando per intero le responsabilità del fallimento su tutti coloro che, invece, l’hanno subito. Separare con l’accetta funzioni e attività, dividere l’Istituto in prestatori d’opera e fruitori di servizi, ignorare qualunque meccanismo di partecipazione alle decisioni, ci ha armati gli uni contro gli altri, privandoci delle frecce che avremmo dovuto rivolgere contro un nemico comune.


Nella perdita di visione complessiva e di senso del proprio quotidiano, che ci derivano da un modello organizzativo tutto teorico e incapace di contemplare le esigenze spicciole del singolo, si è sedimentata la sensazione di poter fare affidamento solo su chi sperimenta i nostri identici disagi, solo su chi condivide con noi l’ufficio, la stanza, la scrivania. Quando si opera un restringimento così drastico degli orizzonti, quando si rinuncia a una lettura larga, quando si sceglie di attribuire legittimità solo ai propri simili, tutti gli altri restano fuori, diventando prima estranei, poi antagonisti.


Nel nostro istituto si sta riproducendo esattamente quello che accade nel paese, entrambi governati da burattinai che, incapaci di fare quello che sono chiamati a fare, fanno ammuina, agitando fantasmi con cui ti lasciano, solo, a fare i conti. Burattinai che creano, ad arte, contrapposizioni insensate e pericolosi conflitti. Il nemico è il collega informatico, che impiega troppo tempo a farti avere quella tastiera che hai richiesto mesi fa. Il nemico è la mamma rom, che ti ruba la casa popolare in cui avresti dovuto trasferirti con la tua famiglia, bianca, italiana.


Quando i confini del riconoscersi reciprocamente vengono costretti entro limiti via via più stringenti - la cittadinanza che puoi vantare, il quartiere in cui abiti, la categoria professionale cui appartieni - ci vengono precluse le uniche strade percorribili verso un miglioramento delle nostre condizioni di vita e di lavoro. Quando accettiamo di piegare il sentimento identitario in strumento di odio, ecco che perdiamo il fuoco e siamo costretti alla difesa acritica di noi stessi e di quelli che riconosciamo come nostri simili.


Lo chiamiamo spirito di corpo ma è un'omertà di comodo che ci spinge ad essere indulgenti con i nostri pari e spietati con chi non appartiene alla nostra cerchia. Chi tradisce è un crumiro. Chi tradisce si sta chiamando fuori. Una narrazione che ci autoassolve e che non ci fa progredire di un millimetro nel cammino di avvicinamento ai nostri obiettivi.


Ci hanno chiusi in trappola. E alimentano costantemente la tentazione di arredarla. La chiave, per fortuna, è nel fondo delle nostre tasche: farci corpo per recuperare lo spirito. Costruire un'opposizione reale a chi ci vorrebbe asserviti.


Organizziamoci, prima di subire l'ennesima riorganizzazione.

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