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Quel gran genio del mio amico Quentin

Aggiornamento: 27 lug 2020

Ultimamente solo due domande circolano fra i movies addicted. La prima: hai visto Joker? La seconda: e l’ultimo di Tarantino? Di Joker ne parleremo quando si saranno calmate le acque degli entusiasmi mentre, per il nono parto di Tarantino, ci sembra sia il momento giusto per discettarne un po’. Anche perché, se vogliamo dirla tutta, del suo cinema sarebbe bene parlarne sempre e forse anche di più. Perché come direbbe Lui, o meglio, come direbbe uno dei suoi personaggi: Quentin is a fucking genius! Ma cosa si cela dietro questo colorito epiteto? Scopriamolo insieme mentre usciamo dalla sala subito dopo la visione del film.


Dopo aver ottemperato alla liturgia dell’attesa dei titoli di coda, una

parola inizia a ronzarci in testa, ma non riusciamo a metterla a fuoco subito. Aleggia sulle nostre teste un aggettivo, forse un sostantivo che racchiude in sé, tutto quello che, con grande coinvolgimento, abbiamo visto per 2 ore e 40 minuti. Poi, la parola ci è appare chiara e illuminante: affabulazione. Ovvero quella straordinaria capacità di riorganizzare un’idea o un soggetto a mo’ di favola avvincente. Sì, Tarantino è un affabulante cronico e ha il potere di trasformare un storiella qualsiasi in un parco giochi narrativo. Ma come fa? Per uno come è lui è facile: senza che te ne accorgi, ti prende in spalla, inizia a correre e, portandoti con sé, ti mostra, con maniacale precisione, i meandri mentali della sua testa da nerd.


Nel 1969 C’era una volta a Hollywood un attore di una serie tv western e la sua controfigura che facevano cose: vedevano registi, provavano parti, cercavano scritture, partecipavano ai party; tutto questo mentre nella mente malata di Charles Manson prendeva forma l’omicidio di Sharon Tate. Questa “storiella” dà modo allo spettatore di partecipare a un’indagine approfondita sull’anima tarantiniana attraverso gincane di feticci cinematografici. Hanno detto che è il suo film più intimo, quelli bravi; noi che lo siamo meno, diciamo che onanisticamente si compiace di illustrare e reinventare tutto quello che lo ha sempre attratto e contaminato. In primis c’è il cinema di serie B (anche se Tarantino ha dichiarato che non è possibile fare una differenziazione del tipo: A , B o Z; ma per lui esistono solo film belli o film brutti). Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), è un attore minore che cerca il suo posto nella hall of fame attraverso dei westernacci low budget: parte così una carrellata sul dietro le quinte di un mondo giustamente sottovalutato ma che era, ed è, una fonte quasi inesauribile d’ispirazione per chi invece frequenta il gotha del cinema. In secundis, ci sono gli omaggi a cose e persone che, attraverso la lente di Quentin, diventano celebrazioni dissacranti ( anche il nostro cinema, nella declinazione degli spaghetti western, viene chiamato in causa in quanto pezzo di cuore del regista americano).

Tarantino distrugge i suoi miti, li ridicolizza, li eleva a icone e poi li brutalizza simpaticamente. Non c’è nulla che possa permettersi di essere così importante da dover essere considerato non ironizzabile. Non esistono argomenti tabù, soprattutto se sono i miti che ti guidano da sempre.

Ma dicevamo all’inizio del genio. Tarantino dà vita a un alter ego di un alter ego: Cliff Booth (Brad Pitt). Cliff, è la controfigura di Rick Dalton che, a sua volta, impersona il pensiero del cineasta. È un caso che si chiami Booth, molto simile a “both” (“entrambi” in inglese)?

Cliff fa da moderno scudiero a Rick Dalton ed è un personaggio anch’esso doppio: si muove come fosse il testimonial di uno spot pubblicitario dei mega brand statunitensi, parla però un linguaggio da serie tv; dando vita a un gioco di specchi che tende quasi all’infinito ma, per motivi di spazio e di tempo, non staremo qui ad illustrarlo.


Tutto ciò, manco a dirlo, non è possibile percepirlo subito. Proprio per questo C’era una volta a Hollywood è un film a cui si ripensa e che, molto probabilmente, deve essere rivisto per cogliere le sue innumerevoli sfaccettature. Tutti i film che generano pensieri di ritorno sono opere che colpiscono nel segno. C’era una volta a Hollywood non fa eccezione.


Roy Batty


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