A quasi due anni dall’avvio della modernizzazione, che aveva promesso un miglioramento generalizzato delle condizioni di lavoro per tutt*, possiamo affermare che il processo, fortemente voluto dai nostri vertici, ha di fatto gettato l’Istituto nel caos e prodotto un malcontento diffuso tra il personale a tutti i livelli.
Su un piano teorico il superamento dei silos tematici centrati sulle singole indagini, e l’introduzione di una organizzazione a matrice potevano sembrare utili ad incentivare la cooperazione tra le diverse funzioni dell’Istituto, eliminare le duplicazioni e uniformare alcuni processi. Di fatto si è prodotta la separazione arbitraria di compiti e funzioni e una conseguente parcellizzazione che ha determinato in alcuni settori la concentrazione dei carichi di lavoro mentre in altri semplici restyling di nomenclatura senza alcun cambiamento organizzativo. Il risultato è una perdita del senso complessivo del lavoro e una crescente difficoltà di gestione dei servizi trasversali che non ha intaccato la divisione per feudi dell’Istituto. Proprio qui restano intrappolati bisogni, aspirazioni e tensioni della grande maggioranza dei lavoratori, mentre la classe dirigente interna ne esce rafforzata.
Alcuni fatti del recente passato (mobilità volontaria post modernizzazione, piano di fabbisogno 2017-2019, progressioni di livello ex art. 54) dimostrano come l’Istat risenta di una classe dirigente incapace e riluttante a mettere al centro il ruolo dell’Istituto e arroccata in difesa di poteri e posizioni di rendita: mentre i dirigenti conseguono sempre il 100% degli obiettivi auto-assegnati, al personale non resta che contendersi le briciole di turnover e salario accessorio.
In questo contesto pensiamo sia necessario immaginare una vera modernizzazione dell’istituto, che abbia il coraggio di innovare realmente sia i processi produttivi che le politiche del personale, senza obsolete infatuazioni per modelli organizzativi privatistici né concezioni del lavoro disciplinato in forma ottocentesca.
Una modernizzazione che metta al centro un’attenta pianificazione di ciò che deve essere prodotto e delle risorse necessarie per farlo. Questo in primo luogo si traduce nella necessità di immaginare un Piano di Fabbisogno del personale che faccia i conti non soltanto con la quantità di risorse a disposizione ma che stabilisca criteri sensati per la loro allocazione. Non è ad esempio accettabile l’imminente pubblicazione di nuovi bandi e parallelamente ci si prepari ad esternalizzare a Consip segmenti produttivi cruciali, con il conseguente ricorso a nuove forme flessibili di lavoro. A pochi mesi dalla stabilizzazione dell’ultima tornata di precari non possiamo permettere che si reiteri quanto già accaduto negli scorsi decenni: esaurimento delle risorse disponibili per ingrossare le file delle posizioni dirigenziali, assunzioni massicce di precari (con l’aggravante dell’utilizzo della somministrazione), creazione di un’anomalia da sanare, blocco di ogni possibilità di reclutamento a tempo indeterminato nei livelli di accesso e valorizzazione per il resto del personale.
Proposte
1. Pianificazione di concorsi ai livelli di ingresso III e VI, sulla base del fabbisogno reale e delle evidenze relative alle cessazioni per il prossimo triennio per un Istituto a precarietà zero.
2. Call periodiche di mobilità interna basate sul profilo.
3. Ampliamento degli istituti del telelavoro e introduzione dello smart-working su base volontaria e come strumento di vera conciliazione e non più come semplice welfare aziendale.
4. Liberalizzazione su base volontaria dell’orario di lavoro dei livelli IV-VIII.
5. Introduzione di un meccanismo che leghi la valutazione dei dirigenti alla valutazione dei dipendenti: se il tuo personale non vale 100 nemmeno il tuo risultato può valere 100!
Comments