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PA 6.0. Il lavoro da remoto in presenza

Siamo nel III millennio, i cambiamenti climatici stanno mettendo in ginocchio tutti i continenti del globo, il sistema economico capitalista mostra palesemente la sua incompatibilità con la sopravvivenza della vita sul pianeta, non più con la sua qualità. I fenomeni migratori hanno assunto proporzioni enormi: le persone fuggono da condizioni di vita precarie, da violenza e guerre, dal degrado ambientale, dalla prospettiva di miseria e dalle disuguaglianze crescenti e sempre più profonde. Una pandemia di proporzioni inimmaginabili fino a qualche mese fa ci ha travolti e costretti a fermarci, quasi un ultimo monito prima del punto di non ritorno.

All’improvviso, per la gran parte delle persone nel mondo è diventato normale girare con una mascherina sul viso, lavarsi le mani ossessivamente, sanificare le superfici di contatto, mantenere le distanze fisiche con amici e parenti, evitare luoghi di aggregazione… È diventato dissonante persino guardare un film dove le persone hanno normali relazioni sociali.


A nove mesi dall'inizio della pandemia, il numero di vittime per Covid-19 ha raggiunto la cifra sconvolgente di oltre 1 milione e 100 mila persone, i contagi sfiorano i 40 milioni.

Eppure, la crisi economica connessa al Covid-19 in cui siamo precipitati, ancora una volta, fa da volano alle spinte più conservatrici premendo per un ritorno a quel futuro che sembra essersi fermato l’8 marzo 2020. In tutti i paesi occidentali il ritorno alla normalità è l’imperativo dominante, in molti l’allentamento delle misure di contenimento dei contagi sta producendo la diffusione incontrollata del virus, si guardi alla Francia, al Regno Unito, alla Spagna... Il nostro Paese non fa certo eccezione sebbene al momento il contenimento del virus è stato fino ad ora un pelo più efficace sebbene nelle ultime due settimane si è registrata un’impennata che porta i nuovi contagi a quasi 12 mila nella giornata del 18 ottobre.


Dopo Bergamo is running, Milano non si ferma, oggi è la volta del rientro in sicurezza sui luoghi di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni.

La disposizione che disciplina la ripresa delle attività in presenza la dice lunga sulle reali motivazioni che hanno spinto a prevedere, alla vigilia della stagione dell’influenza e in concomitanza alla riapertura delle scuole, il ritorno in ufficio di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori del pubblico. Già il titolo è eloquente “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Tradotto significa più o meno che i lavoratori pubblici rappresentano la benzina che alimenta il ciclo economico del commercio, della ristorazione, del trasporto dei centri cittadini e che bisogna che tornino alla precedente routine di spesa per scongiurare il fallimento dell’indotto. L'indotto limitrofo ai nostri uffici, sia chiaro, chè del piccolo alimentari di periferia, del mercato rionale, del forno a conduzione familiare, importa a tutti il giusto, cioè niente.

Per decreto sono così abolite le attività indifferibili che per essere svolte necessitano della presenza fisica negli uffici e si fa spazio al ritorno generalizzato nelle sedi fisiche, fino al paradosso più incredibile.


Per effetto delle normative sanitarie volte a prevenire e contenere i contagi, la Pubblica Amministrazione (come il privato) dovrà funzionare applicando un insieme di protocolli che traslano all’interno degli uffici la condizione di lavoro da remoto che in questi ultimi sei mesi è stata adottata massicciamente per garantire la continuità delle attività, nel caso dell’Istat la produzione statistica.

Così dal primo di settembre le sedi del nostro Istituto sono aperte e le lavoratrici e i lavoratori inseriti in piani settimanali di rientro, calati dall'alto e senza preavviso. Ciascuno dovrà lavorare dalla propria scrivania per almeno 5 giorni al mese, in completa solitudine (ogni stanza può ospitare al massimo una persona), tenendosi in contatto con i colleghi esattamente con gli stessi strumenti informatici che ha utilizzato dal proprio domicilio (PC, telefono, applicazioni varie) dal momento che sono vietate le riunioni in presenza. In qualche caso, dovrà lavorare con meno efficienza e più complicazioni dal momento che le postazioni di lavoro non sono provviste di microfono e webcam.

L’istituto è stato dotato di corridoi a senso alternato di marcia (per evitare incontri), sono limitati gli accessi agli ascensori, agli spazi di ristoro, alle aree comuni. Naturalmente è obbligatorio l’uso di mascherine (vengono distribuiti kit a ciascuno) ed è prevista la sanificazione periodica di tutti gli ambienti e degli impianti di areazione. Un giorno poi faremo i conti di quanto costa tutto questo alle casse delle Stato, cioè quanto ci costa.


Tirando le somme, a ciascuno è richiesto di uscire di casa, spendere mediamente tre ore giornaliere nel tentativo di raggiungere in sicurezza una delle sedi dell’Istituto, per poi sedere davanti a uno schermo e operare come se fosse da remoto. Tutto questo moltiplicato per tutto il pubblico impiego. Tutto questo in una metropoli come Roma dove il trasporto pubblico è una delle piaghe mai risolte da decenni. Tutto questo nella vana speranza che si rimettano in moto alcuni settori, oggettivamente in crisi, a suon di buoni pasto. Tutto questo mentre il settore privato, più attento al risparmio e alla produttività, continua a prediligere lo smart working.


Ma non è tutto. Naturalmente queste spinte, simili a quelle che nei mesi di febbraio e marzo hanno prodotto la mancata chiusura di alcuni settori produttivi e determinato l’esplosione dei contagi in alcune zone della Lombardia, si saldano con altre, tipiche di una certa cultura organizzativa della Pubblica Amministrazione che ancora ha la meglio persino sulla modernità.

Pletore di dirigenti, scippati della loro identità perché privi della possibilità di presidiare e controllare fisicamente il personale loro sottoposto, non si rassegnano al lavoro per obiettivi (quanto era più comodo sapere che tutt* si era lì a disposizione per le emergenze, manco fossimo al PS). Improvvisamente si preoccupano del benessere organizzativo, della componente relazionale e sociale dell’attività lavorativa (mentre precettano al rientro collegh* con figli in fasce)! Improvvisamente occorre occuparsi - strumentalmente - di queste tematiche e soprattutto bisogna porre un freno allo spettro dello smart working che sottrae una certa quota di vetero potere e prestigio a chi occupa le posizioni apicali.

Mentre Funzione Pubblica annuncia che da gennaio 2021 lo SW dovrà riguardare il 60% della prestazione lavorativa, la dirigenza dell’Istat, e in generale quella della PA, per una volta non aderisce al classico slogan “ce lo chiede l’Europa” e prova a resistere con ogni mezzo lecito e meno lecito, fino al boicottaggio del POLA che ancora non vede la luce.


L’immagine fantozziana di una pubblica amministrazione carrozzone, in cui l’irrazionalità e la burocrazia guidano contro ogni buon senso non morirà nemmeno a ‘sto giro. Salvo una nostra riflessione collettiva sulle condizioni di lavoro che abbiamo sperimentato in questi mesi e l’elaborazione di una proposta che guardi all’organizzazione del lavoro del futuro, in cui le esigenze di flessibilità e autonomia di chi lavora e gli impatti di queste modalità di lavoro sui diritti, sulle condizioni materiali di lavoro e sulla collettività siano posti al centro della trattativa con le controparti a tutti i livelli per costringerle a cambiare davvero rotta.


Per iniziare a confrontarci sull’irrazionalità e le problematicità dei rientri in corso e su una proposta di smart working a regime, il collettivo de L’improbabile promuove un ciclo di assemblee che si aprirà giovedì 22 ottobre alle 14:30 sulla piattaforma webmeeting-ISTAT http://webmeeting.istat.it/r1t80grtrrf/

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