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Questa strana e incontenibile stagione

“Subito prima di partire da New York, mi sono ritrovata in una posizione inattesa: aggrappata alle sbarre del Jefferson Market Garden, a guardare dentro il giardino. Un attimo prima stavo andando di corsa come al solito, cercando di sfruttare due minuti di tempo che mi ero ricavata in mezzo agli scaglioni da tre quarti d’ora in cui, all’epoca, dividevo le mie giornate. Blocchi di tempo ben compattati e riempiti perfettamente fino all’orlo, come il secchiello di un bambino che fa un castello di sabbia. Due minuti «liberi» significavano un caffè macchiato. (In un mondo ideale, senza contanti, dove nessuno mi rivolgeva la parola.) Ma quel giorno sono stata colta impreparata... dalla floricoltura. Tulipani. Che spuntavano in un piccolo giardino di città, da un triangolo di terra dove si incrociavano tre strade. Non un fiore molto sofisticato – saprebbe disegnarlo anche un bambino – e quelli erano esemplari pacchiani: rosa con venature arancioni. Già mentre li guardavo avrei preferito che fossero peonie. Nata e cresciuta in città, non mi ero mai resa conto di avere un particolare interesse per i fiori – quantomeno, non abbastanza forte da farmi rinunciare a un caffè. Ma tenevo le dita strette intorno a quelle sbarre di ferro e non le lasciavo andare. E non ero neanche la sola. Sugli altri lati del giardino c’erano due donne, più o meno della mia età, con gli occhi puntati fra le sbarre. Era una giornata fredda, limpida, azzurra. Non c’era una nuvola fra il World Trade Center e la vecchia farmacia Bigelow’s col numero di telefono a sette cifre dipinto sul muro. Dovevamo tutte andare da qualche parte. Ma un potente istinto ci aveva attirate lì. Si dà il caso che il giorno in cui sono stata attratta da quei tulipani sia venuto un po’ prima dell’inizio della mortificazione globale – arrivata tanto per gli uomini quanto per le donne – ma nella mia piccola pozza di esperienza quegli stupidi tulipani sono stati una minuscola anteprima di ciò che adesso sento in ogni momento di ogni giorno, ossia la complessità e l’ambiguità del concetto di «sottomissione. Sono una scrittrice di romanzi. Che può ammettere, arrivata a questo punto, durante questa strana e incontenibile stagione di morte che si scontra, fuori dalla mia finestra, con la fioritura dei denti di leone, che a volte la primavera sboccia anche dentro di me, e che la luna di tanto in tanto mi dà delle scosse all’umore, e che se sento piangere un neonato sconosciuto c’è una parte di me che ancora balza sull’attenti – pronta a sottomettersi. E di tanto in tanto, una volgare varietà di fiori primaverili fa breccia in un’estetica lungamente allenata, rigidamente e consapevolmente urbana. Subito prima che un aprile senza precedenti arrivi a rendere insensata ognuna di queste frasi “
Zadie Smith

In ogni epoca, le epidemie sono il prodotto dell’organizzazione sociale, economica ed ecologica che regola la sfera produttiva e riproduttiva, in accordo ai meccanismi di potere e assoggettamento che la sostanziano.

Le pandemie agiscono spesso da caleidoscopio, amplificando le crisi preesistenti e producendo effetti significativi sui rapporti di forza interni alla società, sulla sua visione politica, sugli spazi di liberazione e di conflitto.

Tra gli effetti più affascinanti della pandemia c’è la trasformazione dei concetti di tempo e di spazio.

Le dinamiche di convivenza con la recente emergenza sanitaria hanno cambiato radicalmente le dimensioni nelle quali siamo al mondo, investendo concretamente il tempo e lo spazio delle nostre vite.

Il tempo puntillistico di Bauman, il tempo dei quanti, dei frammenti, delle schegge di tempo, il tempo compulsivo, interrotto, senza radici, sembra lasciare il passo ad un tempo dilatato, largo, totalizzante.

Il tempo del lockdown.

Il tempo della quarantena.

Il tempo del lavoro agile.

Il tempo dell’attesa.

Il tempo della paura.

Il tempo della ripartenza.

Tutto è fagocitato dal tempo del Coronavirus.

Tutto sembra sospeso, imbalsamato, cristallizzato, in una nuova dimensione temporale che tutto congela in un eterno presente e che ci rende difficile immaginare il futuro.

Ci troviamo bruscamente precipitati nel polo opposto rispetto a quello che abitavamo fino ad un momento prima: dall’iperattività all’immobilismo, dalla schizofrenia del dover produrre qualcosa, dell’avere necessariamente qualcosa da fare, all’insorgere di uno spazio privo di spazio e di un tempo privo di tempo.

Dalle dimensioni multiple ad un’unica bolla centralizzante, tirannica, assoluta.

Una tela bianca da arredare, ciascuno come può, in solitudine.

Privati dei contatti relazionali che ci sottraevano agli individualismi, in una moltiplicazione delle discriminazioni e di acutizzazione delle differenze.

Ma, anche, un tempo da ingannare, da accelerare e rallentare, un tempo da sottomettere alle nostre esigenze.

Le lezioni che ne abbiamo tratto, pur raccontando un’esperienza condivisa, sono profondamente personali e riflettono il mondo, pubblico e privato, che siamo stati capaci di costruire.

Le strategie temporali che abbiamo potuto mettere in atto risentono delle condizioni di partenza di ciascuno di noi, come pure la risposta psicologica.

Qualcuno ha imparato a costruire nuovi ritmi e nuove strutture temporali, incastrando riunioni di lavoro su Zoom, incontri di famiglia su Skype, lezioni di yoga online. Qualcun altro ha fatto fatica a reinventare un tempo che continuava ad avanzare o a non essere sufficiente.

Per tutti, però, si è trattato di un tempo nuovo, un tempo stravolto.

In questo apparente immobilismo, resiste un flusso vitale che non si spegne, che non arretra neppure davanti all’isolamento forzato, che costruisce relazioni che attraversano i confini dei propri uffici-abitazioni. Sono nati nuovi legami sociali, piattaforme rivendicative e organizzative. In rete si sono costruite le prime forme di mutualusmo, capaci di ribaltare lo spazio e il tempo dell'emergenza, attraverso un welfare di comunità sostenibile, possibile qui ed ora.

Identico stravolgimento ha subito lo spazio, altra dimensione nella quale siamo al mondo.

Lo spazio interpersonale, che ha ridefinito una nuova grammatica prossemica fondata sul metro di distanza.

Lo spazio urbano, che da sovraffollato, denso, veloce, diviene improvvisamente vuoto, desolato, muto.

Lo spazio privato, intimo, segreto, improvvisamente trasformato in uno spazio pubblico, uno spazio invaso, uno spazio che non possiamo sottrarre agli sguardi degli estranei, dei colleghi, degli insegnanti.

Uno spazio obbligato dal quale non possiamo fuggire, nel quale dobbiamo rimanere in relazione con chi c’è, che ci piaccia o meno.

Le nostre abitazioni improvvisamente trasformate in uffici, in aule scolastiche, in palestre.

Soggiorni, cucine, camere, resi improvvisamente promiscui e fusi con ambiti lavorativi e sociali imprevisti, non scelti.

Case rifugio, per chi ne ha una.

Case prigione, per le vittime di violenza domestica.

Come accaduto per qualunque altro evento storico di portata eccezionale, anche il Covid ha moltiplicato le disuguaglianze di genere e di classe ed è nella sua dimensione socio-economica e riproduttiva che il diseguale assume forme più brutali.

L’isolamento domestico ha conseguenze perverse se calato in un contesto di violenza patriarcale e rappresenta un ossimoro se rapportato alle tantissime persone che non godono del diritto all’abitare.

Il lavoro da remoto, se ha liberato tempi di vita riducendo gli spostamenti casa-lavoro, ha spesso determinato un significativo incremento del lavoro di cura, troppo spesso ancora in carico alle donne in via esclusiva.

Questa pausa occasionale e fortuita dai tempi scanditi dall’orologio del capitalismo, dovrebbe spingerci a riconsiderare i concetti di crescita e di accelerazione di stampo neoliberista, responsabili di aver plasmato la vita in questi termini.

L’eredità da conservare di questo epocale sovvertimento del nostro modo di agire il tempo e lo spazio è la consapevolezza che un’organizzazione socio-economica incapace di sopravvivere ad una sospensione di qualche mese, forse non è la migliore possibile, che costruire autonomamente il proprio tempo e il proprio spazio non dovrebbe essere un privilegio di pochi, che le attuali regole sociali ed economiche non sono per sempre, non sono immutabili e non sono le migliori possibili.

Dovremmo imparare a sovvertire sia l’emergenza che la normalità.

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