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Razioni

Ciò che è poco, e che deve bastare innanzitutto per sé stessi , si divide, si raziona, si cede agli altri solo in parte, con parsimonia. E’ nell’ordine delle cose: do quel poco che rimane già di quel pochissimo che avevo per me. Primum vivere. Un meccanismo del genere, di solito, si attua in tempi di guerra, ma lo si può fare anche in tempo di pace: si raziona il cibo o il carburante, ad esempio, ma nulla impedisce il fatto che possa essere attuato anche un razionamento a livello psicologico, interiore, in definitiva quello che potremmo chiamare un “razionamento delle emozioni”, tanto in tempo di guerra, tanto in tempo di pace. In realtà, “emozione” ed “emotività” sono termini neutri. Esistono emozioni positive e proattive che cozzano totalmente con quel vulcano di bassi istinti e sfoghi, pur sempre emozioni, che spesso sono indirizzati verso ciò che è diverso da noi, che comunque ci destabilizza o addirittura spaventa.


Siamo attori di fatto di una stagione dove la manipolazione degli impulsi istintuali è stata elevata addirittura a strumento principe di raccolta e conservazione del consenso politico. Ma è proprio in questa stessa stagione che appare imperante, oggettivo, trasversale e molto (forse troppo) rappresentato un vero e proprio processo di razionamento, prima collettivo e poi individuale, di alcune delle più primitive forme umane di solidarietà verso uomini, donne e fatti dell’attualità più stringente da parte di altri uomini e altre donne. Forme emozionali che, invece, se associate ad una cultura politica solida, possono essere forza propulsiva di una solidarietà concretamente più politica e militante.


L’economia domestica dell’emotività spinge molti ad attaccare invece che accogliere o dare un contributo verso ciò che non si conosce. Ci si appiglia al totem delle leggi nazionali a difesa del sacro suolo della patria quando c’è da contestare lo sbarco di una nave di un ONG che salva in mare migranti, oppure al ludibrio più scadente e sessista se c’è da ridimensionare una rappresentativa nazionale femminile di calcio. Poco, di buono, si dà a ciò che non si conosce, al diverso, al solo fine di “proteggerci”. Si raziona la nostra già pigra predisposizione all’”altro”, giustificandoci con un sedicente bisogno (rispetto al passato non più) represso di apparire forti nei confronti di una realtà da dominare prima ancora da capire.


Eppure un tempo si mangiava pasta al burro insieme a tutti. In che senso? Nel senso che tutti mangiavano pasta al burro, quando sia la pasta, ma soprattutto il burro erano per pochi, pochissimi, quasi nessuno. Alcide Cervi, padre dei fratelli Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo Cervi, tutti fucilati il 28 dicembre del 1943 dai nazifascisti, nel suo libro “I miei sette figli” racconta come la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, venne festeggiata nella loro Gattiatico, nella provincia di Reggio Emilia: “offriamo una pastasciutta a tutto il paese. […] Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo. Un po’ di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzuoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Uno dice: mettiamoli tutti in fila, per la razione. Nando interviene: perché? Se uno passa due volte è segno che ha fame per due. E allora pastasciutta allo sbrago, finché va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande […]”.


Non si razionava la pasta, e neanche la solidarietà verso chi da razionare non aveva nulla se non la propria fame, o addirittura, qualcosa di peggiore; prosegue infatti Alcide: “Uno si avvicina ad Antenore e gli dice: c'è anche un fascista che aspetta la pastasciutta, ed è in camicia nera. Antenore risponde: se è qui, vuol dire che ha fame. Poi gli va vicino e gli dice: certo, la camicia nera te la potevi togliere. E lui: ho solo questa. E Antenore, pronto: vedi come ti ha ridotto il fascismo? Non hai nemmeno due camicie. Io ero lì, al fianco di Antenore.”


Vengano pure i cacciatori di buonisti, gli accalappia radical-chic, le squadracce da tastiera: al loro bollore risponderemo, finché possibile, col bollore dell’acqua degli spaghetti , “il più bel discorso contro il fascismo”, come scriveva Alcide Cervi.

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